IL PRETORE Con ricorso depositato in cancelleria il 30 giugno 1993 e ritualmente notificato, Gino Rovai esponeva di essere titolare di due pensioni, una diretta, con decorrenza maggio 1965, ed una di reversibilita', con decorrenza gennaio 1982, e di avere presentato domanda all'I.N.P.S. intesa ad ottenere l'integrazione al trattamento minimo su quest'ultima, a seguito della sentenza n. 314/1985 della Corte costituzionale. Lamentava tuttavia che l'istituto vi aveva provveduto, integrando peraltro al minimo la pensione solo fino al 30 settembre 1983, e liquidando da quella data la pensione "a calcolo": invocando l'interpretazione consolidata dell'art. 6, settimo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, chiedeva la condanna dell'I.N.P.S. al pagamento della differenza tra la pensione consolidata nell'ammontare integrato al minimo alla data del 30 settembre 1983 e quella erogata a calcolo, fino al riassorbimento per effetto dei progressivi aumenti di legge. Resisteva con memoria l'I.N.P.S., chiedendo il rigetto del ricorso, sulla scorta di una differente interpretazione della norma sopra richiamata. Nelle more del giudizio, e' peraltro intervenuto l'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante l'interpretazione autentica dell'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, del d.l. n. 463/1983. All'udienza del 17 marzo 1994, il pretore sollevava d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale della norma da ultimo richiamata, rilevando quanto segue. 1. - L'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 "Interventi correttivi di finanza pubblica", dispone che "l'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, si interpreta nel senso che nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate al trattamento minimo, liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge, il trattamento minimo spetta su una sola delle pensioni, come individuata secondo i criteri previsti al terzo comma dello stesso articolo, mentre l'altra o le altre pensioni spettano nell'importo a calcolo senza alcuna integrazione". A propria volta, il quinto comma dell'art. 6 del d.l. n. 463/1983 sopra richiamato prevede che "le pensioni non integrate al trattamento minimo di cui al presente articolo sono assoggettate alla disciplina della perequazione automatica delle pensioni integrate al trattamento minimo secondo i rispettivi ordinamenti", mentre il successivo comma sesto dispone che "le pensioni integrate al trattamento minimo i cui titolari superino il limite di reddito di cui precedenti comma (in particolare il primo e secondo comma: n.d.e.) successivamente alla data di decorrenza della pensione, ivi comprese quelle aventi decorrenza anteriore al 30 settembre 1983, sono assoggettate alle disposizioni di cui ai commi precedenti dalla cessazione del diritto alla integrazione, applicando all'importo in vigore alla data di decorrenza della pensione, calcolato sulla base dei periodi di contribuzione utili, le percentuali di rivalutazione dei trattamenti minimi di pensione dei rispettivi ordinamenti nel frattempo intervenuti". Infine il settimo comma prevede che "l'importo erogato alla data di cessazione del diritto all'integrazione viene conservato fino al superamento per effetto dell'applicazione delle disposizioni di cui al quinto comma dell'importo determinato ai sensi del sesto comma". 2. - Rileva il giudicante come il potere di interpretazione autentica delle leggi, costituendo espressione del potere istituzionalmente attribuito al legislatore (art. 70 della Costituzione), non trovi ostacoli di rango costituzionale se non in campo penale, ove vige il tassativo disposto dell'art. 25 cpv., della Costituzione. Difatti, nonostante che la legge di interpretazione autentica, introducendo nell'ordinamento la precettivita' dell'apprezzamento interpretativo operato sulla disposizione fatta oggetto di interpretazione, risulti necessariamente retroattiva, il principio previsto dall'art. 11 delle disp. prel. del cod. civ., non costituisce ostacolo in tal senso, trattandosi di norma che risulta equiordinata nella gerarchia delle fonti rispetto a quella contenente l'interpretazione autentica. Tanto premesso, va tuttavia osservato che la stessa Corte che si adisce ha chiaramente individuato, fin dall'inizio del proprio operare (cfr. sentenza n. 118/1957), le condizioni, anche sostanziali, che evidenziano, al di la' delle espressioni nominali adottate dal legislatore, l'esercizio di un autentico potere di interpretazione autentica. Su questa direttrice, e' stato recentemente rilevato (sentenza n. 233/1988) che la qualificazione giuridica di legge interpretativa spetta "a quelle leggi o a quelle disposizioni che, riferendosi e saldandosi con altre disposizioni (quelle interpretate), intervengono esclusivamente sul significato normativo di queste ultime (senza percio' intaccarne o integrarne il dato testuale), chiarendone o esplicitandone il senso (ove considerato oscuro) ovvero escludendone o enucleandone uno dei sensi ritenuti possibili, al fine, in ogni caso, di imporre all'interprete un determinato significato normativo della disposizione interpretata" (cfr. altresi' sentenze nn. 155/1990, 308/1990, 455/1992 e 39/1993). Peraltro, non puo' essere pretermesso che la potesta' normativa di interpretazione autentica presuppone una situazione di obiettiva incertezza sul significato dispositivo della norma, incertezza della quale possono essere espressione, in via esemplificativa, i ripetuti contrasti dottrinali e soprattutto giurisprudenziali o l'uso di espressioni anfibologiche ed oggettivamente oscure, in difetto di che, il precetto normativo impositivo, con effetto retroattivo, della interpretazione prescelta dal legislatore si risolverebbe in un uso irragionevole del potere di normazione primaria (nel senso dell'assoggettibilita' al sindacato di ragionevolezza dell'effetto retroattivo delle leggi interpretative, sentenze n. 283/1989 e soprattutto n. 155/1990). Di conseguenza, pare opportuno richiamare l'insegnamento della Corte laddove afferma che "non puo' .. dirsi che faccia .. buon uso della sua potesta' il legislatore che si sostituisca al potere cui e' riservato il compito istituzionale di interpretare le leggi, dichiarando, mediante altra legge l'autentico significato con valore obbligatorio per tutti, e, quindi vincolante anche per il giudice, quando non ricorrano quei casi in cui la legge anteriore riveli gravi ed insuperabili anfibologie od abbia dato luogo a contrastanti applicazioni, specie in sede giurisprudenziale" (sentenza n. 187/1981). 3. - Tanto premesso, va preliminarmente rilevato che la norma recata dall'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993, trova il proprio antecedente nell'art. 4, primo comma, del d.l. 21 gennaio 1992, n. 14, nell'art. 4, primo comma, del d.l. 20 marzo 1992, n. 237, nell'art. 4, primo comma, del d.l. 20 maggio 1992, n. 293, ed, infine, nell'art. 5, primo comma, del d.l. 21 luglio 1992, n. 345. Si tratta, invero, di disposizione inserita, con identico contenuto, in una serie di decreti-legge non convertiti, e in ordine alla quale venne gia' sollevata in via incidentale questione di legittimita' costituzionale, ritenuta manifestamente inammissibile dalla Corte essendo nel frattempo decadute ex tunc per mancata conversione dei decreti le norme oggetto di giudizio (sentenze nn. 443 e 447 del 1992). La disposizione in oggetto interviene, come detto, per fornire l'interpretazione autentica degli ultimi tre commi dell'art. 6 del d.l. n. 463/1983, convertito, con modificazioni, nella legge n. 638/1983. 4. - Come noto, l'art. 6 citato e' stato introdotto al fine di porre rimedio alla progressiva eliminazione del divieto di integrazione al trattamento minimo di pensioni erogate in favore di percettori di altra pensione, eliminazione conseguente ad una serie di pronuncie caducatorie della Corte costituzionale (sentenze nn. 230/1z974, 236/1976, 34/1981 e 102/1982), le quali avevano dichiarato l'illegittimita' costituzionale di quelle disposizioni limitative del divieto di applicazione dell'istituto dell'integrazione al trattamento minimo in favore di titolare di altre pensioni liquidate da fondi speciali. L'art. 6 del d.l. n. 463/1983 introdusse pertanto il principio, sancito dal terzo comma, dell'integrazione al trattamento minimo - comunque condizionata al mancato raggiungimento dei redditi indicati al primo comma - su una sola pensione, determinata secondo i criteri previsti dal comma terzo medesimo. Poiche', tuttavia, il principio sopra enunciato poteva dirsi senz'altro operante per i trattamenti previdenziali liquidati a partire dal 1 ottobre 1983, restava da considerare la disciplina del cumulo delle pensioni erogate in data anteriore al 30 settembre 1983, entrambe integrate al minimo. Difatti, per effetto della declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 2, lett. a), della legge 12 agosto 1962, n. 1338, nelle parti non ancora dichiarate costituzionalmente illegittime, e dell'art. 23 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (sentenza n. 314/1985), si era sostanzialmente introdotta la generalizzazione del principio della doppia integrazione al trattamento minimo, estesa a tutte le situazioni di concorso di pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria I.N.P.S. Sul punto si registrarono due significativi interventi del giudice di legittimita' (Cass. sentenze 19 dicembre 1989, n. 5270 e 5 maggio 1990, n. 3749). La suprema Corte, valorizzando il dato letterale del settimo comma dell'art. 6 ebbe ad affermare il principio secondo cui, fermo restando il diritto ad una sola integrazione al minimo - alle condizioni definite dal primo e terzo comma - per tutti i trattamenti pensionistici erogati successivamente al 1 ottobre 1983, e la conseguente cessazione, a partire da quella data, della doppia integrazione nell'ipotesi di concorso di pensioni aventi decorrenza anteriore, cio' non avrebbe comportato la perdita del trattamento economico, perche' la disposizione del settimo comma dell'art. 6, nello stabilire che "l'importo erogato alla data di cessazione del diritto all'integrazione viene conservato fino al superamento, per effetto dell'applicazione delle disposizioni di cui al quinto comma dell'importo determinato ai sensi del sesto comma", avrebbe dovuto intendersi come espressamente finalizzata a garantire al pensionato la conservazione del trattamento erogato al 30 settembre 1983 fino al riassorbimento per effetto dei meccanismi di perequazione automatica previsti al quinto e sesto comma. D'altra parte, che la disposizione recata dal settimo comma dell'art. 6 configurasse uno strumento di tutela degli assistiti emergeva de plano dai lavori preparatori, ove si legge che detta norma era stata introdotta "al fine di evitare l'istantaneo ridimensionamento del reddito previdenziale in pregiudizio dell'assistito che perda il diritto all'integrazione al minimo". Tale interpretazione si e' successivamente affermata dando luogo ad un indirizzo ampiamente consolidato (cfr. Cass. 17 luglio 1990, n. 7315, 6 maggio 1991, n. 4963, 1 giugno 1991, n. 6192, 18 luglio 1991, n. 8015, 10 ottobre 1991, n. 10658, 14 dicembre 1991, n. 12139, 19 novembre 1991, n. 12388, 7 febbraio 1992, n. 1335, 18 dicembre 1992, n. 13420, 25 marzo 1993, n. 3572, 30 marzo 1993, n. 3812, 7 aprile 1993, n. 4171, 14 aprile 1993, n. 4438, 20 aprile 1993, n. 4438, 26 aprile 1993, n. 4865), tanto da costituire vero e proprio "diritto vivente". Essa, inoltre, ha ricevuto altresi' l'autorevole avallo della Corte che si adisce, la quale, investita della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, settimo comma, del d.l. n. 463/1983, laddove, secondo l'ermeneusi operata dal giudice remittente, non avrebbe potuto intendersi contemplare la conservazione dell'importo erogato alla data di cessazione del diritto alla integrazione del trattamento minimo nell'ipotesi di concorso di pensioni integrate al minimo, ha dichiarato non fondata la questione, precisando che "per effetto della sopravvenuta sentenza n. 314/1985, il principio dell'unica pensione integrata al minimo, affermato dal legislatore del 1983, deve intendersi validamente operante solo a partire dal 1 ottobre 1983 ma non per il periodo antecedente. Ne consegue che, successivamente alla data indicata, il titolare di due pensioni integrate al minimo conserva su un solo trattamento il diritto all'integrazione, mentre per l'altro la misura dell'integrazione resta ferma all'importo percepito alla data del 30 settembre 1983 ed e' destinata ad essere gradatamente sostituita per riassorbimento, in virtu' degli aumenti che la pensione-base viene a subire per effetto della perequazione automatica". 5. - Se tali premesse risultano fondate, puo' invero affermarsi che l'introduzione nell'ordinamento della norma volta a prescrivere, obbligatoriamente ed in via retroattiva, l'attribuzione del significato da essa indicato all'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, del d.l. n. 463/1983, disveli appieno l'assenza di un fondamento logicamente e giuridicamente riconducibile alle premesse (vale a dire l'esigenza di chiarire la portata precettiva di una norma obiettivamente oscura e/o contraddittoria), e contrasti in definitiva con il canone costituzionale di ragionevolezza sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione. A suffragio di tale considerazione milita altresi' il rilevo che, in questo modo, il legislatore, incidendo negativamente su consolidate situazioni soggettive in assenza di un presupposto giustificativo, non puo', inevitabilmente, non determinare un vulnus nell'affidamento riposto dai consociati (siano o meno essi assistiti) seull'effettivita' del sistema di sicurezza sociale (cfr. in tal senso, sentenze nn. 349/1985, 822/1988, 39/1993). D'altra parte, l'efficacia retroattiva dell'interpretazione sancita dalla norma impugnata, sostituendosi nei procedimenti in corso alla regola di giudizio derivante dalla consolidata ermeneusi dell'art. 6, finirebbe per determinare una evidente disparita' di trattamento tra i pensionati che si siano visti riconoscere, con sentenza passata in giudicato in data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 537/1993, il diritto alla c.d. "cristallizzazione", e quelli che vedrebbero inevitabilmente negato tale diritto, all'esito di un giudizio ancora in corso, e cio' nonostante l'identita' della situazione tutelata (l'esistenza, cioe' di un trattamento pensionistico integrato al minimo decorrente da una data anteriore al 30 settembre 1983), delineando, in tal modo, un ulteriore profilo di illegittimita' per violazione del medesimo art. 3, primo comma, della Costituzione. 6. - Peraltro, si deve osservare come la norma in questione sembri contrastare con altro precetto costituzionale, costituito dall'art. 38 della Costituzione. Se, infatti, le considerazioni che precedono hanno consentito di identificare la ratio dell'art. 6, settimo comma, del d.l. n. 463/1983, con l'esigenza di impedire improvvise ed incisive variazioni reddituali degli assistiti in dipendenza della cessazione del diritto all'integrazione, variazioni senz'altro peggiorative in considerazione dell'erogazione a calcolo del trattamento previdenziale, puo' affermarsi che il drastico ridimensionamento del trattamento previdenziale complessivo in capo al titolare di due (o piu') pensioni, attuato attraverso l'applicazione dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993, contrasterebbe con l'obbligo, costituzionalmente garantito, di assicurare un'adeguata tutela (e per questo non esposta ad improvvise variazioni peggiorative in dipendenza di esigenze di politica legislativa) nella fase di eta' piu' avanzata della persona. 7. - Per quanto attiene, infine, alla valutazione della rilevanza della questione nel presente giudizio, appare evidente che, trattandosi di trattamento pensionistico di reversibilita' liquidato in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del d.l. n. 463/1983 e concretandosi il petitum nel mantenimento della pensione nell'ammontare integrato al minimo alla data del 30 settembre 1983 in capo ad assistito gia' titolare di pensione integrata al trattamento minimo, la norma impugnata estenderebbe senz'altro i propri effetti sulla posizione soggettiva del ricorrente. Sussistono quindi, ad avviso di questo giudice, i requisiti necessari e sufficienti per promuovere il giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, per contrasto con gli artt. 3 e 38 della Costituzione.